La nostra scintillante utopia - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Lutezio
Lutezio | Copyright: W. Oelen, CC BY-SA 3.0

La nostra scintillante utopia

Le tecnologie del futuro passano dai metalli rari, costosi, molto inquinanti e localizzati soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Una nuova cartografia delle disparità mondiali su cui poggiano le nostre rivoluzioni.

Lutezio | Copyright: W. Oelen, CC BY-SA 3.0
Irene Doda

scrive su varie testate, tra cui Il Tascabile, Jacobin Italia e la rivista letteraria inutile. Partecipa come autrice al progetto Anticurriculum, blog e podcast sul mondo del lavoro contemporaneo. Si occupa di tecnologia, questioni di genere e diritti del lavoro.

Tira una brutta aria nell’Antropocene. Le particelle di CO2 nell’aria aumentano a un ritmo di circa 2,5 parti per milione all’anno. L’obiettivo di essere carbon neutral, ovvero di non emettere più anidride carbonica di quella che il pianeta sia in grado di assorbire, è diventato ormai comune a diverse grandi aziende, istituzioni internazionali e governi. L’ambizione con cui è stata nominata la nuova Commissione Europea guidata da Ursula Von Der Leyen è quella di portare l’Unione Europea ad azzerare le emissioni entro il 2050. A livello di policy, di progetti finanziati e di discussioni politiche questo obiettivo si traduce in una sfilza di soluzioni green da implementare sia a livello privato che pubblico. Leggendo i documenti della Commissione per la strategia net zero sul lungo termine, l’insistenza è sulla creazione di mobilità integrata e sostenibile, la decarbonizzazione dell’offerta energetica, l’economia circolare e la digitalizzazione. La transizione energetica sembra aver trovato un suo posto nel nostro ecosistema narrativo post-capitalista. In molti casi si tratta di uno slogan. Ma se diventasse realtà? Se domani ci svegliassimo davvero in una città tramutata in un gigantesco parco, popolata da auto-elettriche e alimentata da tecnologie di carbon capture, come in una fantasia solar-punk?

Mi ha sempre colpito il discorso che lega il cambiamento climatico a problematiche squisitamente territoriali come la qualità della vita. Se da una parte comunicare e creare una narrazione d’impatto di una catastrofe globale è impossibile senza mettere al centro esperienze individuali, dall’altra parlare di superamento dell’emergenza climatica come di creazione di una città-parco sormontata dai pannelli solari e alimentata da pale eoliche è quantomeno riduttivo. C’è un lato B nella storia della città del futuro, ed è il lato B della storia della rivoluzione energetica e digitale. È anche il lato oscuro delle nostre fantasie smart, di un mondo digitale, automatizzato e lontano dai rischi e dall’impurità della materia.

 

Terre rare: una cartografia dello sfruttamento

Batou è una grande città della Mongolia interna, sede di uno dei più grandi impianti di fornitura e lavorazione di metalli rari nel mondo, il complesso Baogang Steel and Rare Earth. Davanti all'impianto si estende un lago artificiale pieno dei rifiuti tossici del complesso di produzione. In quel lago si accumulano i materiali di scarto della nostra transizione verde. I rifiuti su cui vogliamo costruire il futuro dell’Europa vengono proprio da lì: dai paesi ricchi di metalli rari, materiali essenziali per le tecnologie digitali e di decarbonizzazione.

Cosa si intende con terre o metalli rari?  Guillaume Pitron, autore del libro La guerra dei metalli rari, edito per Luiss Universitiy Press, li definisce “l’ossatura delle moderne società”.

«Gallio, selenio, tantalio, litio, germanio, antimonio: questi metalli dai nomi enigmatici (e ne abbiamo citati solo alcuni) sono le componenti irrinunciabili di molti apparecchi elettronici di cui ci serviamo tutti i giorni e gli assi portanti della decantata transizione da un modello di consumo basato sui combustibili fossili a uno incentrato sulle cosiddette energie rinnovabili. Prendete lo smartphone che avete in tasca: la quasi totalità dei metalli rari vi è presente.»

Tantalio

Tantalio

Si definiscono “rari” poiché presenti in piccole quantità nella crosta terrestre, e il rapporto tra lo sforzo estrattivo e il risultato in termini di resa è molto alto. Ad esempio, per estrarre un chilo di lutezio, un minerale usato tra le altre cose nei processi di polimerizzazione, servono oltre duecento tonnellate di roccia. La cartografia dell’estrazione e lavorazione dei metalli rari è la cartografia della società del futuro. La transizione energetica non può più essere rimandata, e questo è un fatto largamente accettato: la domanda è chi sarà a vincere la guerra per l’aria che respiriamo e quali mappe del potere bisognerà tracciare per trovare una soluzione. O, almeno, per inquadrare il problema in tutte le sue sfaccettature.

Le batterie a ioni che alimentano il telefono su cui state leggendo questo pezzo, e il computer su cui io lo sto scrivendo, sono concentrati di metalli rari. Lo schermo degli smartphone su cui ho appena controllato l’orario è alimentato dall’indio, un metallo che insieme a stagno e ossigeno è in grado di condurre l’energia elettrica attraverso lo schermo. Anche per rendere brillante il colore che vediamo sui nostri display entrano in gioco quantità di lantanio, neodimio, terbio, gadolinio, materiali che regolano la penetrazione dei raggi UV. Se invece guardiamo alle batterie, gli elementi che troviamo in maggiori quantità sono litio e cobalto. Altre caratteristiche, come ad esempio l’uso del microfono e la vibrazione, sono rese possibili da metalli come il disprosio, il praseodimio e il terbio.

Abbiamo sotto le nostre dita una mappa dello sfruttamento minerario, un manuale geopolitico. Il litio ne è uno dei nodi strategici. Le più grandi miniere di litio al mondo si trovano nell’America centro-meridionale: in Messico è stata recentemente scoperta la più grande riserva di questo minerale. La scoperta del sito risale a circa tre anni fa. Al momento, viene gestito da due multinazionali: la compagnia inglese Bacanora e la cinese Gangfeng. Il valore del litio è in questo momento pari a circa quattro volte e mezzo il debito estero del Messico. Sempre nel continente americano, in Cile, a Salar de Atacama il litio viene estratto dalla Società Chimica e Mineraria del Cile (SQM). La zona dell’Atacama è una delle più aride del mondo, e da essa proviene circa un terzo della fornitura di litio mondiale. Le comunità indigene, attraverso il consiglio che le rappresenta, hanno richiesto una sospensione o riduzione delle attività della SQM e della sua principale competitor Albermarle. La ragione è l’uso sconsiderato di risorse idriche, che mette a repentaglio la sopravvivenza degli ecosistemi e la salute dell’ambiente delle saline.

Cadmio

Cadmio

Per seguire la storia del cadmio e dell’indio, ci spostiamo invece in Cina, nei villaggi dell’Hunan. Negli anni tra il 2006 e il 2009, alcune imprese (in particolare la Changsha Xianghe) che si occupavano della raffinazione dell’indio riversarono nel fiume Xiang diverse tonnellate di sostanze tossiche, causando danni da avvelenamento a centinaia di persone che vivevano nei pressi della fabbrica. La figurazione più potente del lato oscuro della transizione è forse proprio la storia di Batou. Qui si estende un gigantesco lago artificiale dentro cui vengono pompati i rifiuti tossici del più grande impianto di lavorazione di terre rare al mondo. Una delle esportazioni di maggior valore del complesso di Batou è il neodimio, contenuto nei nostri cellulari. Gli effetti? «Uomini di appena trent’anni vedono i propri capelli diventare improvvisamente bianchi, i bambini crescono senza denti.» racconta Pitron nel suo libro. Dalahay, sulla riva del lago è sinistramente soprannominato il vilaggio del cancro.

Il cobalto è un altro elemento grazie al quale nel futuro potremmo respirare aria pulita: è infatti fondamentale per la produzione di auto elettriche. La Repubblica Democratica del Congo è produttrice di più del 60% del cobalto utilizzato nel mondo, estratto soprattutto nella regione del Katanga. Gran parte delle attività estrattive del Paese sono in mano alla Cina, che è anche il principale importatore di cobalto al mondo. Le miniere di cobalto in Congo sono sede di lavoro e sfruttamento minorile: secondo i dati di Amnesty, che riprendono quelli dell’Unicef, circa quarantamila minori lavorano nelle miniere di cobalto, alcuni per oltre dodici ore al giorno.

Cobalto

Cobalto

Le attività estrattive delle compagnie minerarie hanno trovato nuovi sbocchi per gli investimenti grazie al mercato dei metalli rari, dopo anni di crisi del settore. Dal punto di vista geopolitico, si può osservare la crescente assertività cinese, che gestisce la processazione di circa l’80% del cobalto prodotto nel mondo. Il controllo della catena del valore dei metalli rari da parte della Cina pone gli Stati Uniti e l’Occidente tutto in una situazione di crescente dipendenza per settori strategici. La Cina ha anche gli occhi puntati sull’Afghanistan, dove giacciono, secondo fonti riportate da The Conversation, riserve di metalli per il valore di oltre un trilione di dollari: quelli rari si trovano concentrati principalmente nelle province di Helmand e Nuristan. In questo momento, con il ritiro delle truppe occidentali e il paese in mano ai talebani, l’Afghanistan rappresenta una variabile volatile dello scacchiere geopolitico. Pechino vuole sfruttare le riserve di metalli rari sul suolo domestico e quelle che controlla all’estero per investire in settori strategici come la cyber security e l’intelligenza artificiale.

Scrivono Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi nel loro libro Medusa: storie dalla fine del mondo di recente pubblicazione per Nero Editions: «Se c’è una novità è che la nuova dipendenza mondiale dai metalli rari riconfigura lo scacchiere geopolitico in uno scenario nel quale, questa volta, l’Occidente rischia di soccombere. La Cina detiene oggi il quasi completo monopolio di una serie di metalli rari indispensabili alla transizione energetica “verde”». Persino la Luna potrebbe diventare terreno di scontro per l’appropriazione di metalli rari: nel 2019, l’amministratore della NASA Jim Bridenstine dichiarava che la comunità delle imprese spaziali fosse pronta a svolgere attività minerarie sui corpi celesti. Lo space mining è considerato una delle frontiere dell’economia spaziale.

 

Il futuro per chi?

La nostra cartografia collega l’aria che respiriamo, i dispositivi che teniamo in tasca, le profondità della terra e la vastità dello spazio. Abbiamo l’immaginario della città dei 15 minuti: pulita, verde, un grande parco in cui spostarsi in monopattino. E dall’altra parte abbiamo i villaggi del cancro, le comunità indigene del Cile che si vedono negato l’accesso a risorse idriche di qualità, una guerra commerciale giocata sulla pelle delle popolazioni più deboli della terra. Il processo a livello economico si può definire esternalizzazione dei costi ambientali: quello che opera nel nostro immaginario, però, è una vera e propria rimozione. Ci piace pensare, in fondo, di non avere scelta. Se vogliamo il progresso tecnologico, se vogliamo la transizione verde, la manodopera infantile in Congo è il prezzo che siamo disposti a pagare. Quella dell’estrazione dei metalli rari è spesso presentata come una contraddizione intrinseca al sistema in cui viviamo. L’aria pulita in Europa ha un costo: ed è il processo di colonizzazione, appropriazione delle terre e delle risorse naturali di altre aree del globo. È difficile non vedere, in nuce a questa mappa che abbiamo tracciato, una verità scomoda: la nostra transizione verde, la nostra rivoluzione digitale, sono poco più che la faccia buona di nuove forme di colonialismo. Mentre il nostro sistema economico si racconta e si rappresenta sempre più digitalizzato e sempre meno dipendente dall’industria pesante, le matrici fondative del capitalismo globale sono sempre le stesse: predazione delle risorse naturali, schiavitù e costi scaricati sui più deboli.

C’è una via di uscita? Sull’ultimo numero di menelique dedicato alle ecologie, Victor Wallis (nella traduzione di Emilio Zucchetti) prospetta la soluzione eco-socialista, un modello di società in cui sarà possibile deliberare collettivamente «quali settori dell’attività economica dovranno essere mantenuti o espansi, e quali dovranno diminuire o essere eliminati del tutto. Il principio guida di tale deliberazione sarà la misura per cui una data attività risponderà ad alcuni bisogni umani di base (che siano fisici o psicologici) invece di essere semplicemente finalizzati a portare avanti gli interessi del capitale.» È lapalissiano puntare il dito contro il paradigma di accumulazione capitalista. Eppure, non possiamo fare a meno di considerare la dimensione globale e sistemica dei disastri climatici, comprese le conseguenze dell’estrazione di metalli rari. Se la transizione energetica mondiale sarà guidata da immaginari occidentali – o legati al capitale globale - non riuscirà mai a svincolarsi dalle sue implicazioni coloniali. La narrazione, comune a molti media, del conflitto tra Cina e Stati Uniti per il controllo delle risorse manca di analizzare un punto: siamo così preoccupati della dipendenza strategica dell’Occidente da Pechino che finiamo per ignorare i ben più gravi impatti che l’estrazione di terre rare ha su territori già maggiormente esposti agli effetti del cambiamento climatico. La guerra per l’aria che respiriamo, per la qualità del nostro suolo e per il futuro che vogliamo immaginare ha una posta in gioco molto più alta del dominio strategico occidentale.

Democrazia territoriale e transizione giusta

Il mondo dell’attivismo ambientalista di stampo radicale si interroga da tempo su quale modello applicare alla transizione energetica e all’innovazione tecnologica.

«Le applicazioni tecnologiche come il cloud e i data center comportano un enorme consumo di energia, che al momento è vincolato all’uso di combustibili fossili.» racconta Elena Gerebizza, attivista dell’associazione e collettivo Recommon. «Al momento non pare possibile appoggiarsi ad energie rinnovabili per via dell’intensità energetica necessaria per alimentare le tecnologie digitali su larga scala. È una narrazione tossica quella secondo cui potremo vivere in un futuro totalmente green senza alcun costo nascosto.» Nel 2020, il collettivo Recommon ha collaborato alla stesura del report “Corridoi come Fabbriche”, un’analisi politico-economica dei mega-corridoi infrastrutturali globali e del modo in cui ridisegnano la geografia contemporanea. La fotografia che emerge è quella di un futuro dove una transizione digitale e verde in pochi luoghi del pianeta si basa su una catena globale di sfruttamento di lavoro, risorse naturali e territori. Lo stesso ragionamento si può applicare riflettendo sulla cartografia delle terre rare che abbiamo sinteticamente riportato.

Germanio

Germanio

«Il disegno estrattivista si applicherà anche alla transizione verde, se non si esce dal paradigma del capitale globale: se si lascia il potere di decidere l’agenda a colossi multinazionali, spesso appoggiati e intersecati con gli apparati statali, il modello non cambierà, ma si adatterà alla nuova situazione» continua Elena Gerebizza. «Una delle chiavi di base è la democratizzazione dei processi: partendo da una democrazia radicale e radicata nei territori si potrà davvero parlare di transizione giusta. Si tratta di rimettere nelle mani dei territori e delle persone la possibilità di decidere del proprio futuro.»

La questione globale ritorna dunque al locale. Le molecole dei materiali che abbiamo seguito intorno al globo tornano a noi, cariche di storie di sopraffazione e di significati politici. È dalle storie che racconta questa materia che possiamo partire a cambiare i nostri immaginari.

Hai letto:  La nostra scintillante utopia
Globale - 2021
Tecnologia
Irene Doda

scrive su varie testate, tra cui Il Tascabile, Jacobin Italia e la rivista letteraria inutile. Partecipa come autrice al progetto Anticurriculum, blog e podcast sul mondo del lavoro contemporaneo. Si occupa di tecnologia, questioni di genere e diritti del lavoro.

Pubblicato:
18-11-2021
Ultima modifica:
25-11-2021
;